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Fenomenologia della immortalità negli Elfi

Questo articolo è basato su un saggio molto più ampio e documentato di Claudio Testi, presente nel volume “La Falce Spezzata” (Marietti 2009), che affronta l’argomento in chiave “storica” andando a evidenziare l’evoluzione dei concetti di morte e immortalità così come Tolkien li ha elaborati durante la sua vita e la sua produzione letteraria.

Vengono così analizzate le prime idee per arrivare alla loro maturazione negli ultimi scritti del Professore.

Io mi limiterò a riassumere il quadro finale, già sufficiente per mostrare la complessità dell’argomento. 

Gli Elfi sono immortali e destinati a durare fino alla fine del mondo (Arda), ma possono morire, se feriti in maniera severa o se gravati da pene spirituali insopportabili.

Essi però, sono esenti da patologie fisiche e non possono morire per malattia. 

Un popolo legato al mondo deve coerentemente essere immune da problemi e dolori fisici. Questa comunque è una legge biologica che è coerente nel modo secondario creato da Tolkien. 

L’immortalità elfica è verificata e ribadita ulteriormente attraverso un processo assolutamente originale: gli Elfi sbiadiscono. 

Nel corso dei millenni il loro corpo (chiamato “hröa”) viene consumato del loro spirito (“fëa”) e gli Elfi svaniscono lentamente senza peraltro morire.

C’è da precisare che lo sbiadimento nella Terra di Mezzo risulta una conseguenza del cosiddetto “marring” introdotto da Melkor all’inizio dei tempi, la corruzione e la perversione della materia altrimenti incorrotta e quindi è uno stato “non naturale” nel senso di non inserito nel mondo da Eru nel momento della Creazione.

A Valinor, nelle Terre Immortali, gli Elfi non subiscono lo sbiadimento.

La morte per gli Elfi è quindi la (spesso violenta) separazione delle spirito dal corpo (e questo sarà applicabile anche agli esseri umani).

Se però possiamo fornire una definizione di morte elfica, dobbiamo chiederci in cosa consista la loro “immortalità”. 

La risposta è che esistono due tipi di “morte”: una è un danno e una perdita, ma non una fine.

L’altra è una fine definitiva. Gli elfi non possono subire la seconda (questo è invece il destino degli uomini, il dono di Ilùvatar. Essi si distaccano dal Mondo e nessuno sa dove vadano). 

Perciò gli elfi hanno la certezza del legame con Arda, finché dura Arda. Il loro fëa è connesso al Mondo fino alla sua fine (potremmo chiamare questo tipo di immortalità “longevità seriale”).

Pertanto esiste una morte “corporea” (Elfi) e la mortalità umana in cui il distacco tra spirito e corpo è definitivo.

(Esistono nel mondo Tolkieniano anche esseri immortali sensu stricto: Eru ovviamente e gli Ainur che sono puri spiriti o il cui “corpo”, quando sono Valar, è solo una espressione mentale del fëa).  

A questo punto, definito il concetto di morte di un popolo immortale (il che sembra paradossale) è necessario introdurre le modalità con cui viene “gestita” la separazione tra corpo e spirito negli elfi.

Tolkien arriva a una conclusione dopo una riflessione durata anni.

Gli elfi hanno fondamentalmente tre destini:

  • Muoiono per uccisione o dolore psichico
  • Sbiadiscono nella Terra di Mezzo fino alla fine di Arda senza abbandonare il corpo fisico che però, appunto, riduce la sua “materia” e col tempo, si “assottiglia”. Costoro sono gli indugianti (lingerers). 
  • Vivono, senza svanire, nelle Terre Immortali

Il primo caso si sviluppa in due possibilità:

  • Gli elfi morti vanno nelle aule di Mandos oppure 
  • Non rispondono alla sua chiamata

Nel secondo caso il loro fëa rimane a infestare il mondo fino alla sua fine (i senza-dimora: houseless, diversi dai lingerers benché questa appaia una situazione simile)

Nel primo caso invece sono possibili delle alternative:

  • Mandos li trattiene forzatamente (vedi Fëanor)
  • Dà loro possibilità di scelta tra il ritorno in un corpo ricostruito oppure la dimora del fëa nelle sue aule
  • Un’ultima possibilità è quella di tornare al proprio corpo “non-morto”: è esistito un unico caso al mondo, quello di Mìriel, madre di Fëanor, che ha deciso di separare il suo fëa dal hröa volontariamente e dimorare a Mandos. 

La rinascita

Per oltre 40 anni Tolkien pensò che gli elfi si reincarnassero nei figli, ma alla fine dovette cambiare idea e concepire il loro ritorno in un corpo ricreato dai Valar. La decisione di tornare in questo corpo dovrà comunque passare sotto il vaglio dello stesso Eru. 

Gli elfi di Tolkien quindi sono molto più “spiriti incarnati” che “corpi spiritualizzati” e soffrono della loro immortalità che col tempo diventa un dramma e un peso. 

Lo afferma lo stesso Legolas quando dice che il tempo per gli elfi scorre veloce nelle terre mortali e tutte le cose fuggono e muoiono mentre essi permangono immutati e questo per loro è causa di sofferenza. Al contempo le stagioni che passano sono sempre uguali a sé stesse e tutto sembra immobile ai loro occhi.

Gli elfi sono “fatti” per vivere in Aman dove la bellezza perdura e il fuggire del tempo viene rallentato dalla incorruttibilità di quei luoghi. 

Inoltre il mondo che si allontana sempre più da una situazione iniziale edenica e viaggia verso una oscurità crescente provoca tristezza per la perdita della bellezza iniziale che non può tornare. 

Quando poi un elfo si innamora di un uomo o una donna mortali, questo sentimento destinato a distruggersi a causa del diverso scorrere del tempo tra i due, rende ancora più intollerabile la longevità seriale elfica. 

Se consideriamo che il popolo degli elfi è solo una grande e profonda riflessione sull’ “umano”, Tolkien ci dice che anche per noi la assenza della morte non sarebbe un fatto desiderabile: il tempo che fugge veloce, la perdita del passato, l’impossibilità di avere legami profondi e autentici; tutto questo rende l’immortalità un qualcosa da non desiderare.

Trasponendo il tutto nel mondo reale moderno, un vita che prosegue grazie alla medicina, che utilizza mezzi artificiosi per farci solo sembrare più giovani e forti, che allunga falsamente la vita col rischio della perdita di persone care che restano indietro, appare solo illusione e dolore.

Si dice, perciò, che un giorno gli Dei stessi invidieranno la sorte mortale degli uomini.

E forse un giorno lo capiranno anche gli uomini.   

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Di Dott. Gabriele Bernardini

Biologo, nutrizionista, toscano

2 risposte su “Fenomenologia della immortalità negli Elfi”

Io e le mie amiche, ragazzine, ci chiamavamo tra noi “le sbiadite”, giusto per sottolineare un po’ quell’essere sempre un po’ “fuori dal mondo” e quella ingenuità che ci caratterizzava.

Eravamo un po’ elfi, già allora, e non lo sapevamo.

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