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Fìriel e l’Ultima Nave

È quasi l’alba, da qualche parte nella Terra di Mezzo, alla fine della Terza Era.

C’è una piccola dimora vicino alla foce di un fiume che forse è l’Anduin, forse no e Fìriel (in lingua elfica, “fanciulla mortale”) si sveglia prima che il sole sorga, e scende verso le sponde del corso d’acqua mentre la natura si risveglia.

All’improvviso sente dei canti e vede apparire una luminosa nave dal rostro d’oro.

Sono elfi. Elfi che abbandonano per sempre il mondo mortale per far vela verso Valinor e le terre imperiture.

Accorgendosi di Fìriel, la invitano a partire con loro e ad abbandonare i lidi della Terra di Mezzo, dove ogni cosa è destinata col tempo a svanire e la stessa Fìriel a morire.

“Saluta, oh fanciulla questi campi mortali,

la Terra-di-mezzo abbandona!

Una chiara campana nelle terre natali

di noi Elfi, nella Torre già risuona.

Qui cadon le foglie e l’erba è sbiadita,

sole e luna avvizziscono sempre di più;

il lontano richiamo abbiamo sentito,

che c’invita ad andare laggiù.”

Fermarono i remi e si giraron:

“Fanciulla terrestre non senti l’appello?

Fíriel! Fíriel!” le gridaron,

“Non è tutto carico il nostro vascello:

un solo posto abbiamo.

Le giornate tue corrono leste!

Vieni! È il nostro ultimo richiamo,

bella fanciulla terrestre.”

Per un istante la giovane donna ha una esitazione e fa un passo avanti verso l’imbarcazione, ma quando il suo piede affonda nell’argilla del fiume d’improvviso, come risvegliatasi da un incantesimo, si ferma…

Dalla sponda del fiume Fìriel guardava,

un passo in avanti osò;

ma nell’argilla il suo piede affondava

e fissandoli, si fermò.

La nave in un sussurro passò lentamente

“Non posso venire!” dalla chiglia

la sentirono gemere mestamente

“Della Terra sono figlia!”

“‘I cannot come!’ they heard her cry. ‘I was born Earth’s daughter!’”

Fìriel ha scelto. L’ultima nave elfica passa oltre e scompare lentamente all’orizzonte. La luce si affievolisce ed ella fa ritorno all’ombra della sua dimora per riprendere il consueto lavoro giornaliero.

La sua veste, che prima brillava di rugiada al cospetto degli elfi, adesso è diventata scura e spenta.

Negli ultimi versi di questa poesia scritta da Tolkien, Fìriel non viene più nominata. Il tempo fa il suo corso, la vita prosegue, la natura ripete i suoi cicli e la condizione umana rimane la stessa di sempre: il lavoro, le pene, le piccole gioie della vita, l’invecchiamento, la malattia e la morte, il Dono di Ilùvatar, del quale neanche gli elfi e le Potenze Angeliche di là dal mare conoscono lo scopo e la destinazione finale.

Gli anni s’inseguono l’un dopo l’altro

lungo i Sette Fiumi;

passan le nubi e il sole dall’alto

brilla; tremano tra le spume

salici e canne, sera e mattina.

Ma mai più verso occidente altre navi han solcato

quelle acque mortali come prima,

e il loro canto è ormai svanito.

Non ci sono più navi che portano oltre il mare e il destino degli uomini rimarrà sempre quello di invecchiare e lasciare il mondo. Non è chiaro se Fìriel torni alla vita di sempre con rassegnazione o per un decisa e consapevole scelta.

Fatto sta che sceglie.

Sceglie di affrontare la vita come tutti gli uomini. Magari sarà felice, magari meno, ma alla fine Tolkien forse ci vuole dire che l’essenza della vita è quella di essere vissuta compiutamente e di concludersi, rinunciando a una esistenza lunghissima, ma al contempo senza scopo e senza la possibilità di scegliere il proprio destino.

Una vita fredda e malinconica come quella degli elfi che perpetuano il loro viaggio millenario, cercando di conservare la bellezza del mondo, ma in questo modo si tengono distanti dagli accadimenti della Storia e vivono una vita vuota.

C’è un quadro di van Gogh, “Casa di contadini al tramonto” (1885) in cui si vede una figura femminile che rientra a casa dopo una giornata di lavoro nei campi. La casa è piccola e sferzata dal vento, ma da una finestra si scorge una luce, forse una lampada o il fuoco di un camino.

Quella luce è il simbolo della casa, degli affetti, del riposo e della vita che prosegue, ma contemporaneamente è un segno di speranza, come la luce delle stelle che dall’alto guardano la fragile condizione umana e attendono.

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Di Dott. Gabriele Bernardini

Biologo, nutrizionista, toscano

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