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Gli elfi, la luce e il linguaggio

Nella mitologia tolkieniana, quando gli elfi aprono per la prima volta gli occhi, sotto il cielo crepuscolare della Terra di Mezzo, i primi oggetti che scorgono sono le stelle, schegge della luce di Telperion, uno dei due Alberi sacri di Aman e il risultato immediato di questa visione è un atto di parola: “Ele!”. Questo atto lega la loro percezione sensoriale allo “splendere” stellare e alla Luce.

L’atto linguistico come primo comportamento sarà ciò che poi porterà a definire sé stessi Quendi, “coloro che parlano con voci”.

La parola e la coscienza di sé, quindi, derivano dalla consapevolezza della luce e ciò sia in senso reale che metaforico.

Le Potenza angeliche, i Valar, li chiamano Eldar, il “Popolo delle Stelle” e li convocano a Valinor per dimorare al sicuro alla Luce degli Alberi, che è riflesso della luce divina. Gli elfi quindi sono “destinati alla Luce” e la loro storia successiva è la storia della Caduta, un progressivo allontanamento da essa e perciò dal Creatore.

Sebbene la decisione dei Valar sia dettata da un desiderio di protezione, si rivelerà poi un errore poiché darà origine alla susseguente frammentazione e dispersione dei popoli elfici e dei loro linguaggi, e questo rispecchierà l’allontanamento dalla luce primordiale: ciò che accade alla luce, accade alla parola e al suo significato. 

Secondo Tolkien (che riprende la teoria espressa da Owen Barfield sul linguaggio), esisteva un’unica unità semantica in principio e le parole possedevano significati più ampi e reali ed erano legate indissolubilmente al mito e alle storie, ma col tempo questi significati si sono frammentati in una miriade di espressioni diverse, comprese quelle metaforiche. La Caduta, il distacco progressivo da Dio e dalla sua luce, provoca anche una “diminuzione” delle lingue e dei linguaggi parlati e quindi del pensiero.  

Questa geniale idea di connubio tra luce, caduta e frammentazione del linguaggio caratterizzerà tutta l’opera e la storia elfica come concepita da Tolkien, linguista e filologo: per lui infatti esistono prima le lingue, e le storie sono create per dare un mondo a queste e non viceversa. Mito e linguaggio sono legati in modo stretto. 

Gli elfi quindi si recano a Valinor, ma il viaggio sarà lungo e complicato. Ingwë, Finwë ed Elwë saranno i tre ambasciatori che vedranno per primi le Terre Immortali e la luce del Alberi e poi, tornando, esorteranno gli Eldar a rispondere alla convocazione, ma non tutti accetteranno. 

Qui inizierà la divisione delle stirpi elfiche: da una parte coloro che accetteranno l’invito dei Valar, dall’altra chi lo rifiuterà. Questi ultimi saranno chiamati Avàri, gli scettici, i riluttanti. Si viene quindi a generare la prima demarcazione tra luce e oscurità, sia reale che metaforica. 

Gli elfi che si recheranno a Valinor e vedranno la Luce degli Alberi saranno chiamati Calaquendi (Elfi chiari o elfi della luce), coloro che non vedranno mai gli Alberi prenderanno il nome di Moriquendi (Elfi dell’oscurità). 

Se “vedere la luce” nel nostro mondo è una figura retorica, una esperienza interiore, nel mondo di Tolkien è una realtà esterna legata a un evento storico ma *anche* una espressione culturale di popoli diversi. 

Col tempo, questa semplice divisione tra luce e ombra diventerà più complessa e ci saranno molte sfumature di luce tra i i popoli elfici a cui si accompagneranno concomitanti distinzioni linguistiche e culturali. Infatti, tra coloro che arriveranno a Valinor, si distingueranno alcuni gruppi sulla base del grado di desiderio di vedere la Luce: i Vanyar (gli Elfi Luminosi, i più spirituali, che non lasceranno mai la Luce e la cui storia non entra a far parte dei racconti), i Noldor (gli elfi del Profondo, il cui nome ha il significato di saggi nel senso di dotati di conoscenza) e i Teleri (gli ultimi arrivati, i più incerti).

Parte dei Teleri indugerà durante il viaggio e non tutti, nonostante abbiano aderito alla Chiamata (distinguendosi quindi dagli Avàri) attraverseranno il Mare. Sono questi gli Úmanyar (“quelli che non sono di Aman”, cui nome li identifica per ciò che *non* sono), non propriamente Moriquendi, ma neanche “santificati” dalla Luce di Aman. 

Insomma, chi rifiuta del tutto la Luce non può essere paragonato a chi è disposto a cercarla, ma si perde sul sentiero.

Da ora in poi Vanyar e Avari (i due estremi, i più “decisi” nella accettazione o rifiuto della Luce) non prenderanno parte alla storia degli Elfi nella Terra di Mezzo, mentre le vicende più turbolente vedranno come protagonisti i Noldor e i Teleri, con varie sfaccettature legate all’allontanamento o meno dalla luce che ritroveremo anche nelle nuove parole che Tolkien utilizzerà per indicare questa frammentazione: appariranno termini come “bagliore”, “scintillio” o colori come “oro”, “argento”, “grigio”, “verde” in un miscuglio complesso di realtà/metafore. 

La maggiore differenza linguistica che si lega alla distanza dalla Luce è l’origine delle due grandi lingue elfiche: il Quenya e il Sindarin. La prima (che nasce nel mondo reale sul modello fonologico del finlandese) diventa il linguaggio degli Elfi della Luce, una specie di latino elfico; la seconda, il Sindarin (che si ispira al gallese per fonologia e estetica) è parlata, con numerose declinazioni e “dialetti”, dagli elfi rimasti o tornati nella Terra di Mezzo. 

Qui le cose si potrebbero fare molto complicate e tecniche, ma può bastare un esempio per dimostrare come Tolkien lavorasse sui linguaggi che inventava e come facesse attenzione ai minimi particolari per inserirli nel contesto delle storie e della sua concezione filosofico/religiosa del mondo.

Tra gli Úmanyar spicca il popolo dei Sindar, gli Elfi Grigi o Elfi del Crepuscolo. Qui appare una nuova tonalità, una via di mezzo tra luce e ombra per definire quegli elfi che occupano una via di mezzo tra Calaquendi e Moriquendi e la loro storia prende inizio con quella del loro re, quell’Elwë dei Teleri che vide la luce degli alberi a cui, però, tornando nella Terra di Mezzo decise di rinunciare per amore della sua Regina, Melian la Maia, una potenza angelica di grado minore rispetto ai Valar. 

Sebbene Melian portasse solo il riflesso della Luce di Aman, questo fu sufficiente per Elwë e insieme crearono il regno elfico del Doriath, una piccola Valinor in tutto e per tutto.

Elwë significa “stella-persona” e per estensione “luce-persona”, mentre il suo epiteto “Singollo”, in Quenya è costruito in modo tale da non cancellare la luce originale, ma di smorzarla. Infatti è formato dal Quenya sinda, “grigio”, più collo, “mantello”, con l’ultima sillaba di sinda caduta e la c sorda del secondo elemento cambiata in g sonora per dargli il soprannome “Greymantle”, “Mantogrigio”. 

Una “luce ammantata” che racconta la sua decisione di non vivere per sempre nella Luce degli Alberi, ma di accettarne una “diminuzione” pur essendo consapevole della sua esistenza e potenza.

Ancora, nella lingua Sindarin il suo nome si attenua ulteriormente: Elu Thingol. Il suffisso astratto si indebolisce e si oscura per divenire u. Un’altra modifica è la trasformazione di Singollo in Thingol, spostando le sibilanti in th sorda ed elidendo completamente l’ultima sillaba. Tutto nel Sindarin diventa più morbido e sfumato, accettando la riduzione non come un peggioramento, ma come la decisione di vivere “nel” mondo caduto senza dimenticare la Luce.

Nella concezione linguistica e filosofica tolkieniana le lingue che si modificano e che “perdono luce” non sono meno belle, perchè comunque raccontano una storia e creano un mondo nuovo che può essere narrato, un mondo secondario che il poeta e il narratore, col linguaggio mitico, possono costruire con il tentativo di riunire finalmente l’Umanità col Creatore. Un modo per riavvicinare, di nuovo, l’uomo a Dio.

“Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, soffrire, sperare, morire; ma ora può rendersi conto che tutte le sue inclinazioni e facoltà hanno uno scopo, il quale può essere redento. Tanto grande è la liberalità onde è stato fatto oggetto, che ora può forse permettersi a ragion veduta di ritenere che con la Fantasia può assistere effettivamente al dispiegarsi e al molteplice arricchimento della creazione. Tutte le narrazioni si possono avverare; pure alla fine, redente, possono risultare non meno simili e insieme dissimili dalle forme da noi date loro, di quanto l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile, insieme, all’uomo caduto a noi noto”.

Albero e foglia – J.R.R. Tolkien

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Di Dott. Gabriele Bernardini

Biologo, nutrizionista, toscano

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