L’esercizio del potere per Tolkien è sempre qualcosa di intrinsecamente negativo.
Solo in un caso questa parola ha un sottinteso buono: quando è esercitato dai Valar, le “Potenze” angeliche che governano il mondo su istanza di Eru, cioè Dio. In questo caso “potere” non ha accezioni negative, ma è perchè non appartiene e non è agito dagli incarnati.
Nel momento in cui uomini (ma anche elfi) utilizzano questa facoltà, essi, alla fine, agiscono per il male.
Il potere è connaturato con Dio (e gli dei), gli uomini non dovrebbero mai averne a che fare secondo Tolkien e l’unica maniera per esercitarlo in maniera saggia è auto limitarsi, perchè il potere dell’uomo sull’uomo è innaturale e va consegnato solo a chi lo può usare per rendere liberi gli altri.
Wu Ming4 parla di “anarchismo cristiano” e lo stesso Tolkien ha spesso dichiarato di essere un amante della anarchia, ma non nel senso di “uomini barbuti che lanciano bombe” bensì di gestione saggia e di condivisione del potere per il bene altrui.
Tutti i personaggi buoni di Tolkien hanno un rapporto conflittuale col potere, non lo accettano con leggerezza, benché lo considerino una necessità.
C’è chi decide di perderlo del tutto (Galadriel) e chi, come Aragorn, lo accetta, ma non lo esercita.
Una volta tornato, il Re instaura una monarchia anarchica. Non ci sono popoli vassalli per Aragorn, ognuno è libero nelle proprie terre.
Addirittura egli emana un editto che proibisce a chiunque di entrare nella Contea, lui stesso compreso. Aragorn limita il suo potere.
Chi invece si affida totalmente al potere ne viene corrotto, come Saruman o Boromir.
Tolkien è a pieno titolo uno scrittore moderno, non un passatista medievalista nostalgico.
Ha vissuto il totalitarismo, la propaganda che demonizzava il nemico e conosce bene dove ha portato tutto questo.
L’Unico Anello è emblematico rispetto a questa concezione: è intrinsecamente malvagio e non può essere usato a fin di bene. Assicura potere (e una lunga vita), ma rende schiavi coloro che lo usano. Chi lo indossa ne diventa servo, perde volontà e libero arbitrio e non fa altro che esercitare il volere di Sauron, anche se convinto di fare del bene. L’anello amplifica desideri (che possono anche essere buoni all’inizio).
I Nazgûl accettano gli anelli per avere potere, ma così facendo perdono addirittura l’identità, i nomi e le fattezze fisiche divenendo solo ombre asservite al Signore Oscuro.
Sauron in questo è molto “politico”: non distrugge come Morgoth il nichilista, ma crea alleanze, offre doni. In cambio impone la sua volontà.
L’anello induce negli altri l’idea di essere grandi leader e capi militari, conduttori di eserciti, ma “adatta” la sua offerta a seconda di chi si trova davanti.
Lo fa con Boromir, lo fa con Sam e anche con Gandalf.
Boromir cade, ma si redime, i grandi saggi, Gandalf e Elrond, lo rifiutano e su Sam (il vero protagonista del romanzo) l’anello non ha quasi potere. Sam vacilla, ma si rende conto che diventare un grande eroe non porterebbe a nulla di buono.
Chi detiene il potere, secondo Tolkien, lo deve condividere nelle decisioni: fascismo, comunismo, stati etici, dove tutto passa attraverso la volontà del singolo, sono modalità da rigettare a priori. Aragorn è il re che si arrovella, discute con gli altri, decide in funzione del loro bene.
Lungo tutta storia troviamo anche tante piccole “disobbedienze” che, messe assieme, concorrono al grande disegno della provvidenza (benché non venga mai usato questo termine nella Terra di Mezzo). La disobbedienza agli ordini è spesso fondamentale.
C’è Éowyn che si veste da guerriera e parte di nascosto assieme all’hobbit Merry, nonostante la proibizione di Re Théoden. Le donne non vanno in guerra e gli hobbit sono troppo bassi. Ma Éowyn e il piccolo Merry, disobbedendo, saranno coloro che feriranno e poi uccideranno il capo dei Nazgûl.
Éomer disobbedisce agli ordini ricevuti e lascia passare Aragorn, Legolas e Gimli
Faramir non arresta Frodo e Sam
Hama fa entrare Gandalf nel palazzo d’oro col suo bastone, permettendogli di liberare Re Théoden dalla dipendenza di Grima.
Beregond disobbedisce al sovrintendetene Denethor e assieme a Pipino cerca Gandalf per fermarlo da uccidere il figlio Faramir.
Lo stesso Gandalf dice a Denethor che se gli ordini sono ingiusti è possibile disobbedire.
In Tolkien non c’è la cieca obbedienza al capo come avviene nelle saghe pagane nordiche, ma ogni piccola azione di disobbedienza concorre alla vittoria finale.
Wu Ming4 propone un parallelismo tra Gandalf e il Fra’ Cristoforo del Manzoni: mentre per questi la Provvidenza è una forza che deve essere lasciata agire senza far niente, subendo gli eventi passivamente, per Gandalf è fondamentale combattere, mai essere supini, resistere fino all’estremo, anche quando la speranza sembra svanire. È la cosiddetta Teoria del Coraggio.
D’altra parte non c’è nessuna Rivelazione divina nella Terra di Mezzo, nessun paradiso al quale appellarsi, nessuna garanzia. Solo la ribellione personale, la lotta verso ciò in cui si crede, la Speranza.
E sono i quattro piccoli hobbit che tornando a casa dopo la guerra, si ribellano e fanno insorgere la Contea soggiogata dal despota Saruman.
I quattro amici hanno visto il mondo esterno e col loro bagaglio di esperienze condurranno la ribellione contro uno stato “moderno”, che controlla e pianifica la vita delle persone con la burocrazia, la polizia, i balzelli e l’economia.
Tolkien preferisce un liberismo alla americana che dà spazio alle piccole istituzioni, contro uno statalismo esagerato e accentrante.
Alla fine della Terza Era, gli elfi vanno scomparendo e gli uomini sono chiamati a testimoniare il bene e a fare scelte giuste, anche ribellandosi agli ordini, ognuno facendosi carico delle proprie decisioni.
Il rifiuto del potere per Tolkien è un aspetto fondamentale della sua visione del mondo.
Non ci sono guide sagge nella Terra di Mezzo e l’unico modo per vivere in un mondo più giusto è che i governatori si auto limitino per il bene altrui e per lasciare liberi gli altri di decidere.
E anche di disobbedire.