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Alimentazione e salute

Farine e pane: tra normativa, tecnologia e nutrizione (e bufale)

La farina alimentare è ciò che si ottiene macinando un alimento per ottenere un prodotto a granulometria così fine che non permette di distinguerne le parti.
Si può ottenere una “farina” con le mandorle, con le castagne, con il mais, con i ceci, ecc.
In genere si parla di farina propriamente detta riferendoci al grano tenero (Triticum aestivum)

La semola è invece qualcosa con granulometria più grossolana (per esempio zucchero semolato) e può avere varie “misure” a seconda della grandezza dei granuli (grossa, media, semolino, rimacinata).
Anche in questo caso quando diciamo “semola” ci riferiamo in genere a ciò che si ottiene macinando il grano duro (Triticum durum), ma per esempio esiste la semola di mais, che si chiama “farina bramata”.

Da ora in poi parleremo solo di farine di grano tenero e di pane ottenuto da queste (ove non specificato diversamente)

Secondo la normativa italiana (D.P.R. 9 febbraio 2001, n. 187) le farine si distinguono in base alla percentuale di ceneri (che riflette il loro contenuto in sali minerali), umidità e contenuto proteico e si classificano come farine integrali, 2, 1, 0 e 00. La legge non classifica queste farine in “più sane o meno sane”.

Dato che il chicco di grano integro (cariosside) è formato da una parte centrale ricca di amidi e altre due parti, il germe e i tegumenti esterni (i cruscami, da cui si ottengono crusca, cruschello e farinaccio), più ricche di sali minerali, fibre, proteine e grassi, più la farina ottenuta è povera di queste ultime due parti e meno sarà ricca di sali minerali, proteine, grassi e fibre.
Questo non presuppone che la farina 00 sia un “veleno” però.

La differenza maggiore tra una farina 00 e una integrale è la fibra (2,2g su 100g vs 8,4g su 100g)
Le differenze di contenuto proteico sono molto poco significative (in media 11g su 100g vs 11,9g su 100g)
Il contenuto di grassi non è così diverso (0,7 vs 1,9) sebbene quelli delle farine integrali siano grassi “buoni” e utili.
Il contenuto di micronutrienti (vitamine, sali minerali, altri composti) può variare anche molto, ma l’alimentazione moderna è in grado di supplire facilmente alle mancanze attingendo da altre fonti.

Pertanto le più grandi differenze a livello di salute risiedono nella quantità di fibre (anche le farine 1 e 2 ne possiedono una buona quantità, ma paradossalmente sono più vicine alle farine 0 e 00 che non alla integrale) le quali permettono una sazietà maggiore (e quindi un minor introito calorico) e migliorano la flora intestinale.
Ma nessuno proibisce il consumo di farina raffinata, viene solo suggerito di consumare almeno la metà di prodotti a base di carboidrati nella forma integrale.

Non c’è però nessun riferimento normativo che distingua una vera farina integrale ottenuta dalla macinazione del chicco intero (a cui comunque è stata tolta parte della crusca per rispettare le disposizioni di legge, infatti la macinazione del chicco tal quale supererebbe i limiti di legge massimi per quanto riguarda le ceneri) rispetto a una più o meno raffinata a cui si è aggiunta crusca successivamente (e che quindi può mancare dei nutrienti del germe di grano, sebbene questo non sia sempre detto, infatti molte farine ricostituite contengono sia crusca che germe). Per il legislatore una farina ricostituita è uguale a una veramente integrale (e in effetti a volte lo è davvero, nutrizionalmente parlando).
Per capire se un prodotto è fatto di farina veramente integrale oppure ricostituita bisogna sbirciare la lista ingredienti (che oggi impone di indicare i dettagli) e la tabella nutrizionale.

Oggi comunque la gran parte delle farine integrali è ricostituita perchè le farine “bianche” rappresentano il 90% del mercato (noi le vogliamo così) e i moderni molini devono adeguarsi alla richiesta. La lavorazione del chicco si fa utilizzando dei laminatoi al cui interno si trovano dei cilindri contro-rotanti in ghisa, che vanno a lavorare sul grano in modo specifico e differenziato, passaggio dopo passaggio. Questa lavorazione moderna (per modo di dire, visto che risale a 150 anni fa), prima “spezza” il chicco e poi “setaccia” le varie parti ottenute (nei cosiddetti “buratti” o “plansichter”) per ricavare le varie granulometrie, cioè la parte amidacea (da cui si ricava la farina 00) e i cruscami, con tutte le eventuali fasi di rimacinazione intermedia a seconda del diagramma di macinazione scelto dal molino.

Questo processo di macinazione a cilindri, composto da più fasi di macinazione/stacciatura, si differenzia da quello a pietra (erroneamente ritenuto “migliore”) in quanto, in questo secondo caso, il chicco subisce una macinazione in un unico passaggio tra due mole in pietra da cui si ricava al massimo una farina integrale (o anche una farina 2 o 1, grazie a un’unica seguente “setacciata”).

Non è vero che la macinazione a pietra “preserva” tutto il chicco integro. Questo vorrebbe dire che da 100kg di chicchi si ricavano 100kg di farina integrale. Non è così, in quanto una lavorazione “a tutto corpo” (non proibita, ma non si può più chiamare “farina”) non rispetterebbe i limiti di legge per le ceneri che risulterebbero oltre l’1,7% max previsto dalla normativa. Perciò il mugnaio deve comunque “buttare” qualcosa per fare una farina integrale macinata a pietra.

Inoltre, non è vero che la macinazione a pietra “mantiene tutte le caratteristiche nutrizionali del chicco” poiché lo scalda meno: una macina a pietra esegue tutto il lavoro di macinazione su un singolo passaggio e la farina che ne risulta esce ad una temperatura più alta rispetto ad una farina ottenuta con un molino a cilindri che può fare un lavoro più fine e controllato in più passaggi, stressando meno il prodotto.

Infine, come abbiamo visto, non è vero che nei molini a cilindri le farine integrali siano necessariamente prive del germe, perchè spesso viene ri-aggiunto assieme alla crusca e, a differenza della macinazione a pietra (che, sì, lo mantiene sempre, visto che non si possono ottenere farine 00 e 0 con questa lavorazione), è integro, laddove viene “rotto” inevitabilmente dalle mole di pietra.

La vera differenza tra la lavorazione a cilindri o a pietra riguarda l’umidità: le farine macinate a pietra presentano umidità inferiore rispetto alle farine macinate a cilindri e poi presentano parti cruscali dalla granulometria più fine e spigolosa. Queste differenze sono utili a fini tecnologici.

Un parametro importante per la panificazione è la forza della farina (W) che indirettamente indica la quantità proteica e quindi di glutine. La famosa e spesso contestata Manitoba per esempio, è una varietà più ricca di glutine (16% di proteine, quindi fuori media), con una W elevata, utile per alcune lavorazioni che necessitano di grandi lievitazioni, ma anch’essa non alcun impatto sulla salute perché è una normalissima farina.

Alle farine possono essere aggiunte alcune sostanze utili a livello tecnologico (i cosiddetti miglioratori) che non hanno alcun impatto salutistico visto che sono virtualmente assenti (per definizione) nel prodotto finito (pane per esempio). Proprio per questo non devono necessariamente essere indicati in etichetta (il che non è quindi una cosa che ci tengono nascosta, ma una deroga legata all’uso di coadiuvanti tecnologici ed enzimi prevista per legge: regolamento UE 1169/2011 (art.20)).
Sono usati per migliorare aspetti riguardanti la cottura, la lievitazione e la resa e si distinguono in non-enzimatici (contenenti agenti emulsionanti come digliceridi, monogliceridi o altri additivi come la vitamina C, la lecitina di soia, il malto, ecc) e quelli enzimatici, contenenti per lo più amilasi.

Il pane, secondo la legge n.580 del 4 luglio 1967 è “il prodotto ottenuto dalla cottura totale o parziale di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito, con o senza aggiunta di sale comune (cloruro di sodio).
Questa è la definizione di “pane comune”, e per intenderci, quello normalmente suggerito dalle linee guida nutrizionali.

Il pane comune può essere di tipo 00, 0, 1, 2, integrale (ricostituito o meno) o anche di semola (se si fa col grano duro)

Secondo il DPR 30 novembre 1998, n. 502 (che ha rivisto la normativa passata) nella produzione del pane possono essere impiegate farine alimentari quali orzo, farro, segale, etc., miscelate con sfarinati di grano. In tal caso si chiamerà “pane al” seguito dal nome dello sfarinato caratterizzante (es. pane alla segale).

Poi esistono i “pani speciali” a cui si può aggiungere di tutto, dall’olio, al latte, alle olive, ai pomodori secchi ai cereali maltati, ai semi e che devono avere alcune caratteristiche previste sempre dal DPR 502/98.

La legge permette anche la vendita di pane parzialmente cotto, pane surgelato e pane ottenuto mediante completamento di cottura di pane parzialmente cotto, surgelato o no.
Il decreto interministeriale 131 dell’1 ottobre 2018 impone di distinguere in etichetta il pane confezionato che ha subito un “processo di congelamento o surgelazione” o che contiene additivi e conservanti (“pane conservato” o a “durabilità prolungata”), dal pane fresco che è definito come il pane preparato secondo un processo di produzione continuo, senza che vi siano interruzioni per il congelamento o la surgelazione, fatta eccezione per il rallentamento del processo di lievitazione, senza l’utilizzo di additivi o altri trattamenti conservanti. È ritenuto continuo il processo di produzione per il quale non intercorra un intervallo di tempo dall’inizio della lavorazione fino al momento della messa in vendita del prodotto superiore alle 72 ore.

Queste ultime possibilità di produzione e conservazione e disposizioni legislative NON modificano le caratteristiche nutrizionali del pane che invece possono essere anche MOLTO diverse nei pani speciali con aggiunta di grassi e altri ingredienti (come le noci per esempio), ma sono previste unicamente ai fini di una maggiore trasparenza verso il consumatore

Quindi il pane propriamente detto è UNO solo: il “pane comune” legalmente definito, cioè quello fatto con farina, acqua, lievito e eventualmente sale (che sia precotto, parzialmente cotto, surgelato o meno, non cambia niente per le caratteristiche nutrizionali).

Il resto è “sfizio” e non andrebbe utilizzato come “pane” ma come un prodotto da forno particolare, una ricetta da consumare in piccole quantità e saltuariamente. Sono compresi anche i pani morbidi, i pancarrè, che spesso sono più grassi e calorici e laddove non lo fossero, offrono comunque una resistenza alla masticazione (e quindi un potere saziante) inferiore.

Se pensate di mangiar “pane” utilizzando quelle cose oggettivamente meravigliose e ricoperte di semi, con dentro le noci, le olive e i tiramisù…beh forse dovreste rivedere la definizione di pane.

Tornando alla definizione di “integrale”, la circolare N° 168 del 2003 del ministero delle attività produttive, afferma che “non ha rilevanza alcuna, ai fini dell’informazione al consumatore, la messa in evidenza che si tratta di «farina integrale di grano tenero»…. (omissis)….. oppure di «farina di frumento integrale» …(omissis)… o, infine, di farina integrale ricostituita…(omissis)…. I prodotti finiti sono tutti legali con caratteristiche organolettiche pressoché’ identiche”.
Anche per il pane quindi non c’è una definizione legale di integrale.

Riassumendo: dal punto di vista nutrizionale e della sicurezza (non da quello tecnologico e di gusto), le differenze che contano in una farina sono quelle legate al contenuto di fibra (e in minor misura di altri nutrienti), non alla presenza o meno di miglioratori, alla provenienza degli sfarinati (le farine estere non sono “peggio” o meno sicure di quelle italiane) o alla generica attribuzione di una fantomatica “miglior qualità” (i grani cosiddetti “antichi” non producono farine nutrizionalmente “migliori” o più sicure).

Per il pane, valgono le stesse considerazioni: le differenze nutrizionali stanno nel contenuto di fibre e nell’aggiunta o meno di ingredienti (grassi soprattutto), non dalle trasformazioni che subisce.

Il GUSTO (e i caratteri organolettici in generale) dipende da milioni di fattori e non c’entra nulla con quanto detto finora qui.

Bonus: gira un reel in cui il Dottor Berrino afferma che il pane faccia ingrassare, ma la pasta no (sic!), perchè il pane alza la glicemia…
Ecco, passate oltre perchè, sotto, ci sono splendidi reel di gattini estremamente più istruttivi.

Riferimenti

https://www.politicheagricole.it/flex/files/2/f/6/D.34ca305e98ded6c87bfc/DPR_187_2001.pdf

https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1967;580

https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:presidente.repubblica:decreto:1998–11–30;502

https://www.mimit.gov.it/images/stories/normativa/decreto-1-ottobre-2018-n-131.pdf

https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:304:0018:0063:it:PDF

https://www.bda-ieo.it/test/ComponentiAlimento.aspx?Lan=Ita&foodid=12_2&foodname=FARINA%20DI%20FRUMENTO,%20TIPO%2000

https://www.bda-ieo.it/test/ComponentiAlimento.aspx?Lan=Ita&foodid=10_2&foodname=FARINA%20DI%20FRUMENTO,%20INTEGRALE

https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/f/farina#farina-di-grano-tenero

http://www.tuttoalimenti.com/2020/11/13/il-pane/

https://aeaconsulenzealimentari.it/gli-ingredienti-consentiti-per-la-produzione-del-pane-informazioni-per-il-consumatore/

https://www.facebook.com/TuttoAlimentiConsulenza/photos/a.1283291851789612/3110351649083614/

Focus su Coadiuvanti tecnologici nel pane e nei lievitati

Si chiamano coadiuvanti tecnologici e PER LEGGE sono destinati a non essere più presenti nel prodotto finito e quindi si può evitare di metterli in etichetta ovviamente (a differenza degli additivi). Se una cosa non c’è più perchè dovremmo scriverlo in etichetta? In alcuni casi rimangono tracce e allora vanno indicati. 

Questo però non è perchè “ci tengono nascoste cose”, ma per motivi scientifici e normativi. Non ci vogliono uccidere, ecco.

La sicurezza rimane garantita perchè sono sostanze controllate. 

Vanno utilizzati in modo tecnicamente giustificabile

Non devono costituire un rischio per il consumatore

Alcuni (es. enzimi) possono essere oggetto di valutazione EFSA se usati in quantità rilevanti o se nuovi.

Nel settore dei prodotti da forno sono sostanze usate nel processo di lavorazione per migliorare caratteristiche come:

Lievitazione

Lavorabilità dell’impasto

Volume, crosta e alveolatura

Conservabilità

Esempi:

Enzimi (per scomporre amido e proteine, migliorare struttura e volume: amilasi, xilanasi, proteasi)

Acidi organici (per rafforzare la maglia glutinica, controllare il pH: acido ascorbico (vit. C), acido citrico)

Emulsionanti (per migliorare impasto e shelf-life)

Agenti antischiuma o distaccanti (per facilitare la lavorazione: lecitina, oli vegetali)

Stabilizzanti della lievitazione (per favorire l’azione del lievito: maltodestrine, zuccheri semplici)

Normativa sui coadiuvanti tecnologici (in Italia e UE)

Livello europeo

Attualmente non esiste una normativa specifica armonizzata a livello UE per i coadiuvanti tecnologici nel settore alimentare (a differenza degli additivi regolati dal Reg. CE 1333/2008).

Tuttavia, esistono riferimenti indiretti:

Regolamento (CE) 178/2002 (normativa generale sulla sicurezza alimentare):

I coadiuvanti devono essere sicuri per il consumatore, anche se non sono presenti nel prodotto finale in modo significativo.

Regolamento (UE) 1169/2011 (etichettatura):

Non è richiesta l’indicazione in etichetta dei coadiuvanti, salvo se:

Rimangono nel prodotto in misura significativa

Sono allergeni (allegato II)

Regolamento (CE) 1332/2008 (sugli enzimi alimentari):

Gli enzimi usati come coadiuvanti sono in attesa di una lista positiva da parte dell’EFSA e della Commissione Europea (ancora in aggiornamento).

Livello nazionale (Italia)

In Italia, i riferimenti principali sono:

Circolare Ministero della Sanità n. 10 del 29 luglio 1996

Definisce i coadiuvanti come “sostanze impiegate per un uso tecnologico durante la trasformazione degli alimenti e che non sono intese ad essere presenti nel prodotto finito”.

Richiede che siano tecnologicamente giustificati e non presentino pericoli per la salute.

Decreto Legislativo 27 gennaio 1992, n. 109 (ora abrogato in parte, ma ancora richiamato in alcune prassi)

Disciplinava l’etichettatura e faceva riferimento implicito anche ai coadiuvanti.

Norme settoriali

Per alcuni alimenti esistono regole specifiche (es. per il vino, il latte, ecc.). Nel caso del pane, si fa riferimento alle regole tecniche della panificazione tradizionale, ma non c’è una normativa vincolante dedicata solo ai coadiuvanti usati nel pane.

Mi concentrerei più su quanto pane uno mangia che su queste sostanze. 

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Di Dott. Gabriele Bernardini

Biologo, nutrizionista, toscano

4 risposte su “Farine e pane: tra normativa, tecnologia e nutrizione (e bufale)”

Buonasera, Dottore.
Avrei un quesito terra-terra da porre, dopo essermi anzitutto complimentata con Lei per le esaurienti differenze tra semola e farina.
Al di là dell’aspetto normativo, mi intriga una questione: da che mondo e mondo il pane come si fa?
Della serie: il grano duro precede il grano tenero, o viceversa?
A me hanno insegnato e spiegato -anzitutto a casa- che il pane si ricava dalla semola, che a sua volta si estrae dal grano duro.
Dal mio umile osservatorio, non c’è paragone tra il sapore e la consistenza (oltre al senso di sazietà) di una fetta di pane di grano duro rispetto al pane di grano tenero.
Un caro saluto,
Maria Giovanna.

Il pane si fa sia con la farina di grano tenero che con la semola di grano duro a seconda dei paesi e delle tradizioni. Non c’è mica una regola universale. Al sud Italia è frequente il pane di grano duro per esempio. Ma non c’è niente che precede o segue.

Salve, come prima cosa la ringrazio per tutto il lavoro che sta facendo per portare un pò di conoscenza in un ambito così delicato.
Le volevo chiedere una cosa che sicuramente avrà già detto e che mi sono perso io, nella ricetta del pane che mi faccio a casa sono solito usare lo zucchero, meglio mettere miele o malto?

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